Testi completi della mostra “Mi vedi? La relazione tra testo e immagine oltre la didascalia” | Una mostra fotografica del laboratorio Ubif

Mi vedi?

di Sacha Catalano

Mi vedi? nasce dall’esigenza di studiare il ritratto fotografico cercando di andare oltre il genere e i facili stereotipi. Il laboratorio UBIF si è posto l’obiettivo di far emergere i significati e le possibilità estetiche che ruotano attorno al concetto di ritratto, inteso non solo nella sua prassi rappresentativa più generica ma tentando di indagare i suoi risvolti funzionali e concettuali.

A rendere il percorso di questa ricerca più interessante, è stato l’incontro con lo scrittore e poeta Francesco Menozzi che ci ha proposto di aggiungere l’elemento testuale alle nostre immagini. Sapevamo quanto antica fosse la diatriba tra chi, purista, professava il primato dell’immagine senza titolo (che vale mille parole?) e chi, invece, sosteneva la necessità di dotare la stessa di un contesto verbale, che fosse per fini giornalistici, politici o artistici poco importava. Ed è proprio da questa contesa mai risolta che abbiamo pensato di amplificare il senso di alcuni lavori producendo testi che andassero a giocare con le parti più spigolose dei due linguaggi (quello fotografico: senza codice; per citare Barthes nel suo La camera chiara). Una forma contrappuntistica che nel montaggio finale restituisce un linguaggio terzo che prova a farci uscire dal contingente mentre sonda il visibile. Nascono così le didascalie allargate che potrete leggere su questo manifesto e appese al muro, tra le immagini in mostra.

Tra i progetti dei 12 autori in mostra si possono cogliere diversi riferimenti estetici e culturali che segnano dei netti confini tra immaginari che vivono come pianeti a sé stanti ma allo stesso tempo formano una galassia riconoscibile e armonizzata dall’esperienza della condivisione continua di idee e realizzazioni nel pieno spirito del gruppo UBIF: e allora ecco che ci troviamo di fronte a opere che indagano il mito, quindi l’antropologia e l’identità, fino a lavori metafotografici che ci fanno riflettere sul modo in cui un volto può essere utilizzato per assegnare, questa volta con certezza, un’identità a una forma in modo automatico oppure si deforma nell’intenzione dell’autore di catturare quella compulsività che caratterizza il nuovo linguaggio filmico delle dirette social. Lungo questo viaggio incontrerete il coming-of-age senza sconti impresso nel duello tra fisicità e identità in trasformazione, passerete l’intimità dei luoghi che si fanno ritratto personale fino ad arrivare all’uso dell’ultima immagine, quella che ci consegna alla morte, e poi, inevitabilmente, all’amore. 

Il ritratto come testimonianza reale o immaginaria di una relazione. Da qui nasce il titolo della mostra: Mi vedi?. Un domanda che, nella forme convenzionali di comunicazione (video) ha una funzione fática, ha il solo scopo cioè di stabilire, mantenere, verificare o interrompere il contatto tra mittente e destinatario. Mi vedi? è anche una possibile domanda eterna del soggetto ritratto che si trova davanti a noi, anche in questa sala, nella sua presenza-assenza e che forse attende una risposta, da noi osservatori muti in questo accidente di mondo.

Lo scrivente nascosto nel visibile
di Francesco Menozzi

La parola “immanenza” è sempre stata una parola che mi ha suscitato delle particolari emozioni. È Immanente “tutto ciò che permane nella realtà oggettiva che lo racchiude”; per farvi un esempio potrei dire che <<vi è una forza immanente che trasforma il seme in albero>>, ovvero che esiste qualcosa di imperturbabile, inamovibile, che non è in grado di trascendere alcunché gli si palesi di fronte in quanto “fondamenta” della realtà. Nell’immanenza permane una sorta di solidità che è impossibile per noi da catturare se non con un atto di trascendenza, ovvero di incalzamento tra i nostri pensieri. Ecco questa sensazione di vero, del verissimo che fa da fondamenta per il mondo mi ha sempre fatto pensare alle cose immanenti che non possono essere modificate ma solo comprese attraverso un atto di “falsificazione” o “condizionamento” dal punto di vista intellettuale. Facendo questa premessa non posso che avvicinarmi allo stato dell’arte fotografica partendo da una frase di Roland Barthes, la quale mette in relazione il linguaggio con l’immagine “Ad una struttura fotografica è allegata una struttura linguistica”. Questa frase emblematica in realtà racchiude al proprio interno la stretta relazione tra “immanenza” e “trascendenza”

La fotografia non è altro che il prodotto di un documento sensibile alla luce incluso nella autenticità delle cose, “un’immanenza della realtà” mi verrebbe da dire; la fotografia sovrasta la superficie rendendo il vero, verissimo, custodendo il fascino imperturbabile dell’oggetto racchiuso in una parentesi di eternità da cui non potrà mai più eludersi. Secondo questo principio il fotografo si veste da semi/demiurgo e partecipa all’unione degli aspetti estetico/percettivi contenuti nel mondo sfruttando il proprio linguaggio, linguaggio la cui grammatica è strutturata da elementi nati da un rapporto di reciprocità con “l’esperienza nel mondo”. Quello a cui noi ci troviamo di fronte – ogni volta che osserviamo una fotografia – è un atto estatico di “presenza”, nel più puro senso cognitivo. Qualsiasi cosa si frapponga successivamente all’oggetto fotografico non può che divenire una “trascendenza” stessa del contenuto originale, in quanto per sua natura l’immagine stampata non può più essere trasposta nella sua potenzialità originale, ma solo interpretata secondo i condizionamenti personali che ognuno di noi sfrutta per decifrare il linguaggio a più gradi contenuto nel “referto”. Ora arriviamo alla relazione che intercorre tra la scrittura e la fotografia e soprattutto a cosa è emerso durante l’esperienza che ho vissuto dentro il collettivo Ubif, dal quale è poi scaturita questa mostra dal titolo “Mi vedi?”.

Veniamo ad oggi. Osservando tutti i manoscritti posizionati all’interno della tavola digitale avvicinati alle fotografie pronte per la stampa, di primo acchito ci si trova di fronte ad una serie di testi, oserei dire “panorami linguistici” altamente differenti gli uni con gli altri anche se questo non deve trarre in inganno; si passa da un resoconto di natura diaristica atto a definire con maggiore emotività delle sensazioni contenute in immagini che descrivono viaggi, autoritratti, androni di un condominio, corpi esausti ondeggianti all’interno di letti sfatti, ad una narrazione puramente didascalica che ha lo scopo di descrivere con grande attenzione oggettiva lo stato immanente delle cose contenuto nella foto. Vi è uno scritto in chiave “romanzata” in cui si tenta di costruire una sorta di racconto/testimonianza inventato partendo da un’interpretazione biografica dei volti impressi su delle Fotoceramiche funerarie. Anche le forme di comunicazione digitale entrano nel vivo del rapporto tra fotografo e testo, inserendosi diametralmente in uno scenario del tutto innovativo; ci sono residui di chat o ricerche effettuate su Google con il solo scopo di maturare nell’osservatore un senso di adesione al “The NOW-NOW” inteso come spazio presente in cui tutto può potenzialmente fluire. Lo spettro della testimonianza è sempre più vivo quando la chiave di lettura è incline ad un registro ristretto di “fraintendimenti”, elementi a mio parere descritti sapientemente da Susan Sontag che per commentare il rapporto tra testo e immagine dice: “Anche una didascalia perfettamente esatta è solo una possibile interpretazione, necessariamente limitativa, della fotografia alla quale è unita. È un guanto che s’infila e si sfila con facilità”.

Ogni artista si è misurato con la scrittura seguendo un personalissimo utilizzo della parola, dando così prova del fatto che la connessione tra immagine e testo appare altamente intima e fondata su di una grammatica interiore, unita da un profondo senso di “giustizia” nel diffondere il proprio messaggio nella maniera più consona possibile. Tutti gli scritti portano l’osservatore a sperimentare in termini “dialettici” l’esperienza dell’immagine a cui si riferiscono, percorrendo strade alle volte nitide mentre in altre panoramiche ma un pelo più rischiose. Nessun atto si distanzia dall’oggetto di riferimento, c’è un profondo senso di appartenenza con ciò che si è riusciti a fermare sulla carta e leggendo i testi affiora in maniera pressoché diretta questo coinvolgimento a doppio filo. Sono le storie, sono i resoconti personali, le semplici descrizioni della propria ricerca; tutto è perfettamente collaudato per fornire all’osservatore una risposta esaustiva alla domanda preposta in partenza: Mi vedi? 

Le opere in mostra:

  1. Alessandro Settenvini – The yearbook project – 2021

Sentire e toccare, le imperfezioni e i pensieri di un’adolescenza che lascia testimonianza del suo divenire; unicità che i giapponesi chiamano wabi-sabi, l’estetica della transizionalità e dei difetti. Riconoscere il nostro passato guardando al presente ci interroga sull’evoluzione e le generazioni; chi eravamo, chi sono, chi saranno, chi siamo diventati?
Oltre un documentario sulla metamorfosi, The yearbook_project è un tuffo dentro noi stessi. 
Sito personale

  1. Luca Manzardo – Authentication failed – 2022
    Testo generato da fonte umana, revisionato da fonti umane e intelligenza artificiale.

Il Rinascimento rappresenta un periodo di grande fermento artistico, durante il quale il genere del ritratto si evolve in maniera significativa. I ritratti bidimensionali tipici del Medioevo lasciano il posto a raffigurazioni più realistiche che veicolano informazioni sullo status sociale e politico dei soggetti ritratti. In tale contesto, la ritrattistica acquisisce un’importanza crescente grazie a un interesse sempre più preciso per l’aspetto naturalistico e fisiognomico, strettamente correlato alla diffusione della tecnica della pittura a olio, la quale consente di realizzare opere estremamente dettagliate e ricche di particolari distintivi.

Le attuali tecnologie forniscono oggi strumenti altamente sofisticati per l’analisi dei tratti somatici presenti nei volti umani. In particolare, i software di riconoscimento facciale (FRS) impiegano algoritmi di intelligenza artificiale per estrarre e comparare dati biometrici dalle immagini facciali presenti nei database disponibili. Grazie all’individuazione dei “landmarks” nei volti umani, mediante una serie di punti di riferimento, questi strumenti sono in grado di generare “faceprints”, ossia immagini digitali uniche per ogni individuo.

I faceprints vengono utilizzati per vari scopi, dallo sblocco degli smartphone, al profiling razziale fino all’individuazione di soggetti specifici nelle proteste.

“Authentication Failed” è un progetto artistico il cui nome trae ispirazione da una frase pronunciata da un sistema di riconoscimento facciale utilizzato per il controllo agli accessi di sicurezza. Tale progetto presenta una serie di ritratti rinascimentali in cui vengono evidenziati i principali punti di interesse utilizzati dai software di riconoscimento facciale per definire i faceprints. La sutura visualizzata cerca di rimarginare la distanza semantica e interroga sull’esito del processo di guarigione. Se la ritrattistica del passato veicolava informazioni di carattere politico-sociale, spesso con l’ausilio di particolari dal forte valore simbolico, quella contemporanea fornisce e produce dati.

Il progetto in questione rappresenta una sfida al valore tradizionale del ritratto come opera d’arte, innescando una riflessione critica sulle problematiche contemporanee. L’iniziativa si configura come un tentativo di dialogo intertemporale, che fa ricorso all’arte del passato per indagare questioni attuali, stimolando un dibattito sull’utilizzo delle tecnologie di riconoscimento facciale.

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  1. Francesca Volpato – (Don’t) Strike a Pose – 2023

(Don’t) Strike a Pose è frutto di incontri casuali e contatti spontanei con ragazze e ragazzi incrociati nei loro luoghi di frequentazione abituali e più ordinari: l’uscita da scuola, l’ingresso all’università, il tragitto verso casa.
I giovani sono aperti, disponibili all’approccio. Hanno familiarità con l’esibizione di sé e una spiccata consuetudine all’autorappresentazione; un ingenuo – a volte conflittuale – desiderio di esporsi. La richiesta è semplice e sempre uguale: niente posa, niente sorrisi; soltanto sguardo fisso in camera. È un’intrusione nel loro spazio quotidiano, un tentativo di scatenare in loro una reazione ritraendoli senza uno scopo preciso, senza un codice visivo. Nessun atteggiamento, nessun filtro. Solo presenza. In tempi di comunicazione formattata e sovraesposizione mediatica, questa neutralità provoca reazioni di lieve disagio, interdizione, vuoto. Corpi rigidi, schiene inclinate, braccia e mani sospese, sguardi inespressivi ma inaspettatamente intensi: spogliati delle loro pose stereotipate, i corpi e i volti dei ragazzi tornano ad esprimere tutta la cruda fisicità propria della loro giovane età.
Il contrasto fra la rigidità della postura e la vitalità dei corpi riflette un’identità indefinita, in fase di evoluzione e non ancora consapevole. Il risultato è uno stato di vibrazione, di tensione. Ritratti di uno stato profondo dell’esistenza che affiora dalle foto oltre le intenzioni del soggetto e le aspettative del fotografo.

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  1. Matteo Razzano – Tap to watch people live – 2021 e in corso

Tap to watch people live è ciò che sento essere più simile ad un reportage sull’angolo di contemporaneità che già abito. Parte dall’esigenza di documentare qualcosa, di fornire allo spettatore delle immagini per capire un periodo in mutamento. Il mio interesse si è concentrato su un aspetto in particolare della socialità virtuale -sempre più normalizzato e diffuso- il contenuto “live”, o diretta, ovvero un carosello incoerente fatto sia di inquadrature a volte vuote e desolate che da riprese estremamente statiche o infine da raptus totalmente frenetici nella loro pulsazione dopaminica. Questi contenuti hanno delle caratteristiche importanti e caratterizzanti che mi hanno sempre incuriosito: richiedono un grande investimento temporale per la loro realizzazione come per la loro fruizione ed essendo materiale audiovisivo tendono a monopolizzare totalmente l’attenzione e l’impegno dello spettatore. Altra eccezionalità è che sono pensati per un consumo immediato, di fatto svanendo nella maggior parte dei casi sottolineando la loro natura totalmente estemporanea. TikTok in particolare è riuscita a massificare con eccezionale rapidità l’uso e consumo di questi contenuti, offrendo ai suoi utenti strumenti relativamente semplici per cimentarsi in tutto ciò, autonomamente dal proprio smartphone. Accedere ai contenuti live è semplice e viene fin consigliato; la cosa che mi ha subito affascinato è come sia stato trasportato completamente il meccanismo di scroll ad “ascensore” dell’app. Scorrendo si viene trasferiti all’interno di un momento della vita di un altro utente. Emerge la percezione di una popolazione perenne che abita l’app, pronta a condividere il loro tempo con un pubblico virtuale. Una popolazione fatta da individui talvolta distorti dalle loro stesse inquadrature, mentre tengono d’occhio lo schermo per l’avvento di una inaspettata popolarità.

  1. Anita Nicolin – A sud è già primavera – 2023

Anche il bianco e nero è a colori. E come non avere risposte, guardare all’acqua in un fiume alle prime ore del mattino e sapere cosa fare delle proprie mani, dei propri occhi…
Ogni città risuona di un’altra. L’ambrato dei mercati medio orientali con la luce dell’autunno in centro Europa, la pelle di un uomo che non sapevi avesse il colore di una terra già calpestata, il riflesso sbagliato di un’immagine in bianco e nero che sembra nostalgico qualcosa di già visto e vissuto. Perché limitarsi a pensare che il mio presente si trovi solo qui in inverno, dove non sono ancora fioriti i gelsomini delle primavere e delle estati.
Il corpo sa tutto.
Il corpo sa tutto e per questo rende il tutto meno importante, come se un significato ultimo del suo vivere fosse il suo spettro sensoriale.
Il mio corpo è un grande vuoto che risuona nei luoghi profondi e famigliari. Ma familiare non è di certo solo il mondo in cui siamo cresciuti. Camminare per strade lontane e riconoscere in un passo d’uno sconosciuto, movenze di un infantile candore. Trovare nella fuga verticale di un giardino, il suono e il colore di un lontano trauma, che ha scritto solo belle parole. Riconoscere nella stanchezza di un altro, la bellezza di una antica visione. E cercare di osservare dall’alto una terra, la terra del mio paese, quale paese, che è stato amico della mia poesia e non ne ha bruciato le parole. Cerco di disegnare una terra che mi tratti con gentilezza, una terra ancora senza nome.

  1. Francesca Torresan –  A Belcolle non si muore –  2023

1876 – Stazione di Belcolle -A scendere da un treno in arrivo da Torino, un giovanotto dall’aria intraprendente. Il capostazione, tale Bettino Vagoni, incuriosito da quel volto foresto, si avvicina con fare indiscreto. Decide di indagare le intenzioni del ragazzo, che scopre essere Pierpaolo Lucis, un fotografo in erba rientrato nel suo paese natale dopo anni, con il proposito di aprire un piccolo spazio dove applicare la tecnica del ritratto.  

Se si pensava alla stazione di Belcolle, non poteva che apparire l’immagine immediata di Bettino e il suo fischietto. Lui e quel piccolo arnese metallico portato al collo con fierezza, erano inseparabili, tant’è che non se ne allontanava neppure per dormire. 

Pierpa, così chiamato dagli amici più intimi, aveva abitato talmente tante città, da non ricordarsi in quale aveva vissuto prima o dopo, in quale vi era rimasto per più tempo, ma dell’ultima, Torino, si ricordava in maniera particolare. A Torino infatti, quella che era una grande curiosità sperimentale, la fotografia, diventò presto realtà concreta, uno scopo totalizzante. 

Una volta tornato in paese, per invogliare i cittadini a prestare il proprio volto alla causa, decise di diffondere la richiesta appendendo manifesti in tutta Belcolle.

Il secondo personaggio dopo Bettino a manifestare interesse verso questa pratica non ancora sondata, fu Cisco Malombra, cappellaio di Via 3 Teste, che necessitava di una tecnica realistica per pubblicizzare il suo nuovo modello all’avanguardia. Cisco era un esteta. La sera era solito girovagare per il paese: quattro passi dalla bottega alla chiesa, per poi fermarsi a osservare la gente, seduto alla solita panchina situata sotto il Cedro secolare. Un appuntamento, tra lui e quella panchina, al quale non si sottraeva mai. Adorava guardare come gli altri si conciavano, sussurrando tra sé e sé commenti impietosi. 

Nei giorni precedenti agli scatti in studio, Cisco promosse entusiasta l’iniziativa a una cliente abituale, tale Amelia Di Ricino, farmacista di Belcolle da ben quarant’anni. Anch’essa decise di passare da Pierpaolo, sedotta dalla possibilità di avere una versione di sé permanente, da poter rimirare nei tempi lenti della vecchiaia, da buona nostalgica.  

Amelia aveva settantadue anni, portati con raffinata saggezza. Conosceva il nome di tutte le erbe mediche dalle quali ricavava unguenti e idrolati miracolosi. Non esisteva cittadino di Belcolle che non avesse goduto i benefici di quei prodotti prodigiosi. 

Durante un comune lunedì pomeriggio si presentò il generale Guerrino Battaglia in tenuta militare, mosso dalla volontà di regalare alla madre un’immagine che restituisse memoria di quegli anni gloriosi in cui serviva la patria con orgoglio. 

Guerrino aveva servito il Paese durante le tre guerre d’indipendenza e Belcolle gli aveva conferito speciali menzioni e onorificenze. L’ultimo conflitto, quello per l’annessione del Veneto, marchiò il veterano in maniera permanente. Un proiettile infatti si fermò nel suo torace, a pochi centimetri dal suo cuore, senza intaccare gli organi vitali, impossibile però da estrarre chirurgicamente. 

Guerrino aveva una figlia, Aurora Battaglia, una creatura sensibile alla luce, che in occasione di un ritratto in giardino commissionato dallo stesso Battaglia, a causa della lunga esposizione al sole, svenne, rimanendo allettata per giorni.  Aurora amava profondamente la natura, ma non potendo goderne appieno a causa della sua invalidità, la leggeva. Possedeva una biblioteca infinita di atlanti, libri di botanica illustrata, testi di scienze della terra. Il padre le aveva regalato il suo binocolo militare per permetterle di osservare fuori dalla finestra a lunga distanza.  

Si susseguirono altri personaggi di Belcolle nei mesi successivi, ognuno con una storia addosso da immortalare. 

  1. Mara Scampoli – Mixed – 2021 e in corso.

Il progetto mira a documentare un fenomeno sociale che è legato indissolubilmente a quello dell’immigrazione in quanto fatto strutturale che lentamente modifica scenari linguistici, etnici, religiosi: i matrimoni misti.  l’Istat, nello specifico, intende come coppie miste quelle formate da un cittadino italiano per nascita e un cittadino straniero o italiano per acquisizione. L’etichetta “coppia mista” è legata al concetto di differenza come costruzione culturale relativa ad un determinato contesto storico e sociale. In tempi in cui l’immigrazione viene rappresentata come un fenomeno emergenziale piuttosto che come un’inevitabile evoluzione sociale, la diffusione della coppia mista rappresenta direttamente la capacità di inclusione piuttosto che di segregazione del processo migratorio da parte della cultura di accoglienza.

Una delle indagini più recenti sul territorio nazionale in merito ai matrimoni misti è stata condotta dall’Istat su dati del 2018. In tale anno sono state celebrate 33.933 nozze con almeno uno sposo straniero, il 17,3% del totale dei matrimoni, una proporzione in leggero aumento rispetto all’anno precedente. Stando ai dati diffusi, i matrimoni misti ammontano a oltre 24mila nel 2018 e rappresentano la parte più consistente dei matrimoni con almeno uno sposo straniero (70,5%).  “La quota dei matrimoni con almeno uno sposo straniero – spiega l’Istat – è notoriamente più elevata nelle aree in cui è più stabile e radicato l’insediamento delle comunità straniere, cioè al Nord e al Centro. In questa parte del Paese quasi un matrimonio su quattro ha almeno uno sposo straniero, mentre al Sud e nelle Isole si registrano proporzioni inferiori al 10%”. Il Veneto è una delle regioni in cima alla classifica per numero di matrimoni misti, che rappresentano il 24% del totale. Nel 2018 i matrimoni con stranieri rappresentano il 30% del totale dei matrimoni celebrati a Padova.

Il progetto è tutt’ora in corso, a partire dalla città di Padova. Ho scelto di rappresentare le coppie attraverso il ritratto ambientato, in luoghi da loro individuati come affettivamente significativi. L’obiettivo ultimo è quello di mettere in discussione il concetto stesso di “mixité” mostrandone tutta l’artificiosità, rivendicando l’assoluta unicità di ogni essere umano e di ogni unione.

a)Anna, Italia e Constant, Costa d’Avorio. Sposato nel 2019. Constant è arrivato in Italia da minorenne, ha vissuto in diverse città, in Italia e in Francia e ha svolto innumerevoli lavori. Sentono il peso della differenza di origine solo nella capacità di accoglienza da parte dell’ambiente sociale. Ad esempio, è stato difficile per loro trovare un affitto, dice Constant. Secondo lui, le differenze sono più nella personalità che nell’origine. Anna, d’altra parte, scopre che ci sono importanti differenze culturali, come la gestione del tempo.

b)Silvia, Italia, e Sam Manawa, Nuova Zelanda. Entrambi sentono profondamente il legame con la terra e il potere generativo del femminile. Insieme hanno creato un progetto di educazione all’aria aperta che si ispira alla pedagogia nel bosco e fa leva sui concetti di esplorazione e gioco libero, immersione nella natura e comunità educante. Manawa nel suo lavoro utilizza le abilità terapeutiche che derivano dalla cultura Maori.

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  1. Vincenzo Miranda – Dioniso – 2023

La necessità, il grido, la violenza nell’opera di Vincenzo Miranda “Dioniso
di Francesco Menozzi

 Il fascino dell’impossibile permea nell’artista fintanto che il suo atto creativo diviene nel “fare” un nodo verticale, premente verso la conoscenza profonda di sé e di ciò che riguarda il suo presente. L’opera di Vincenzo Miranda è costituita da un percorso creativo sviluppato nel tempo che ha dato luogo ad un cubo di cemento al cui interno vi è immerso dentro ad un grumo di terra fertilizzata, una scatola di plexiglass contenente un totem/idolo o bambola (sul cui volto è impressa l’immagine dell’artista) rappresentante una sintesi delle mutazioni avvenute su differenti piani creativi. Partendo da un’analisi delle Icone preistoriche Vincenzo identifica nel corso della storia delle tappe evolutive che hanno destrutturato quell’identità originaria volta alla comunione totale nei confronti del Tutto. Questa lontananza sempre più marcata da una dimensione simbiotica con la natura ha inevitabilmente generato nell’uomo il tratto extra-cognitivo della “paura” intesa come incapacità di connessione tra il soggetto ed il suo ambiente, dando inevitabilmente accesso ad una serie di moltitudini accessorie create con il solo scopo di reprimerla in maniera sedativa, fittizia. Questa pluralità di elementi contingenti al singolo viene anche detta collettività, ma non basandosi sulla dimensione sociale fondamentale per la crescita e lo sviluppo del singolo, bensì sulla frammentarietà degli elementi compositivi dell’individuo, via via più allargati verso una natura “liquida” dell’io, ora più che mai resa permea da qualsiasi contenuto proveniente da ogni “organo direttivo”. La paura in quanto “deformità” dall’idea originale (intuito) dell’esistenza, è divenuta nel corso del tempo una sorta di Hybris dominata dalla tecnologia e dalla scienza volta ad un distanziamento oggettuale tra il soggetto ed il proprio dáimōn interiore. La comunicazione rivolta unicamente ad un oggetto esterno deforma fatalmente il percorso individuale dell’uomo, il quale in maniera del tutto autonoma affida i propri contenuti interiori alle “cose” in quanto testimoni incensurati della “prima causa”, così privandosi inconsciamente della capacità di indagine e disvelamento atta a contenere l’angoscia e lo spettro dell’indicibile o perlomeno a censurare l’ombra del terrore all’interno di determinati istanti di presenza consapevole nel mondo. Le cose ci tradiscono per una questione di mero investimento emotivo senza che noi apparentemente incolumi ne acquisiamo il loro profondo significato, significato di “cose” ossia neutrali al soggetto che le nomina in quanto tali. L’artista ha il dovere di ricollocare la dimensione dell’oggetto – in quanto manufatto costruito secondo la propria capacità manuale – al centro del dibattito riguardante “la necessità, il significato, la violenza” che investe la simbiotica dimensione dell’arte nell’uomo. 

Su queste fondamenta l’artista decide di intervenire sfruttando qualsiasi elemento creativo per far riemergere ogni immagine, forma o contenuto proveniente dal proprio vissuto ancestrale, ancora mantenuto in uno stato di “latenza” ma profondamente vivo e sensibilmente presente in determinate dinamiche che la realtà alle volte ci presenta. 

Vincenzo decide di sottoporsi come cavia ad un percorso di mutamento, sviluppando su differenti piani creativi delle alterazioni somatico/percettive della propria identità. La fototessera diventa oggetto di studio tramite programmi di editing che gli permettono di alterare i propri tratti somatici, nel tentativo di trovare una corrispondenza a quelle immagini arcaiche dominate da sembianze animali, grottescamente inconcepibili da un punto di vista antropomorfo, che però racchiudono l’emblema dell’uomo primo, inteso come essere allacciato ad un sistema morfologico direttamente connesso con la natura.

L’elaborato passa successivamente ad una serie di evoluzioni/studi/errori fintanto che l’immagine dell’artista alterata al punto tale da essere ricoperta da un fascio di peluria “cosmica” viene stampata su di un telo di nylon e appoggiata in differenti luoghi, dando così prova alle cose della loro neutralità di fronte alla veste creativa che l’uomo intende fargli ricoprire. Il telo viene appoggiato su di una statua ellenica destrutturando in questo modo la simbologia classica di appartenenza dell’oggetto, ricollocando l’opera ora “sconsacrata” in una dimensione estatica di disappartenenza dall’ente che l’ha concepita. L’espropriazione dal significato originale permette all’artista di evolvere il proprio concetto di identità mutando e soprattutto mutuando dei “significati” espressi nel mondo esterno, secondo la propria volontà di rappresentazione. 

La costruzione della bambola avviene infine come atto conclusivo di un’esperienza che l’artista ha vissuto direttamente su di sé passo dopo passo. La bambola viene costruita in carta pesta, sul volto viene incollata la faccia di Vincenzo ora ricollocata seguendo il percorso di emersione di un’identità latente. Ci si trova di fronte ad un uomo Vitruviano spogliato da ogni fattezza, bianco pur avendo ricevuto segni di ustione su tutto il corpo, bianchissimo nella sua posizione a gambe e braccia spalancate, così neutralizzato a livello umano al punto da incarnare in un qual modo l’idea di un personaggio vestito con indumenti usa-e-getta per non alterare l’ambiente limitrofo con la propria presenza. Il puro per Vincenzo incarna una sede illogica in questo contemporaneo, il puro è la massima espressione di un “homo novus” incline ad un concetto di igiene soprannaturale, che non riguarda nemmeno più l’umano ma lo sovrasta eccedendo in maniera pressoché ipertrofica in un soggetto “intoccabile”, che per forza maggiore necessita una dimensione “interiore” per poter evolversi secondo il proprio credo. Questo è il prodotto del fuoco, della fatica, dei viaggi, della malinconia, del dolore, della sostanza, questo è ciò che l’artista afferma di sé. La bambola viene successivamente adagiata all’interno di un cubo di plexiglass e letteralmente immersa in un’acqua che ha più il valore di un liquido amniotico, simile ad un nutrimento in grado di conservare nel corso del tempo il frutto dell’esperienza. Il cubo a sua volta viene inserito dentro ad un altro cubo più grande di cemento al cui interno viene inserita della terra fertilizzata e seminata, con la speranza che il cubo di plastica che è stato posizionato al centro, possa rompersi e lasciare fuoriuscire l’acqua nel grumo terroso in maniera tale da consentire alle sementi di crescere ed emergere come stato ultimo dell’esperienza.

“Dioniso” non solo come encomio alla divinità greca – in quanto fautrice del cambiamento pur mantenendo al suo interno l’emblema della esistenza nella sua forma più cruda, vivida e brutale – ma a quella parte che in ognuno di noi è racchiusa e costernata da una serie di vicissitudini che ne impediscono l’emersione. Serve un atto di coraggio, una variazione sul tema, una rottura partecipata e viva delle strutture dominanti che ci attanagliano ad una forma che riconosciamo in quanto nostra, ma che in sostanza non ci rappresenta fino in fondo. Serve un atto di coraggio per esistere doppiamente, potrebbe essere il gesto di Dioniso nel trasformare i sartiame in serpenti con il solo scopo di raggiungere la propria libertà, o quello dello stesso dio divenuto toro inneggiante la sprezzante energia della natura condensata in un corpo massiccio e infuriato. 

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  1. Matteo Carottini – Madre – 2022
  1. Carlo Bombonati – Seen up close – 2022

a) Dicevi che la saggezza era cambiare punto di vista. Ti risposi che a me bastava togliere gli occhiali.
b) Oggi mi sento al gusto “pioggia”.
c) E sarei rimasto nella fossa se non ci fossi tu qui a scuoter lapidi.

  1. Stefano Zotti – People also ask – 2023

I testi condividono lo stesso spazio dei ritratti, sono delle considerazioni superficiali relative ad una realtà presunta, non sono ne prima ne dopo le immagini ma nello stesso spazio, ci siamo immersi fino al collo sia io che i soggetti in questa realtà fatta di campioni, percentuali e scelte più o meno giuste. L’espressione “people also ask” usata da Google è lo spazio dove mi piace pensare finiscano queste testimonianze.

Sito personale e Instagram

  1. Valentina Gerolimetto – Bangkok – 2019

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Concept e cura dei testi: Sacha Catalano e Francesco Menozzi

Editing, grafiche e allestimento: Giacomo Streliotto
Stampe a cura di: Marco Valle

@ubifclass